Oggi ho ritirato fuori i pantaloni con le tasche, ripreso il vecchio taccuino e accompagnato una collega straniera sul campo, per realizzare un reportage nelle zone terremotate.
Tra le scaglie di Amatrice ho ritrovato la pelle d'oca, i pixel e le emozioni che avevo dimenticato in qualche angolo di Gaza.
A sbriciolare le case non sono state le bombe questa volta, ma la devastazione, la dignità e il dolore sono così simili quando il mondo ti crolla addosso.
Non è facile fare questo lavoro. Gli sciacalli sono tanti, vero, ma saper entrare e uscire in poco tempo nelle vite frantumate degli altri è un grande onere, oltre che onore. Bravi i colleghi che lo sanno fare in punta di piedi. È un'enorme fortuna e responsabilità.
Io mi porto a casa ancora una volta indimenticabili fotogrammi di storia e umanità: lo sguardo del fratello di Andrea, ucciso con tutta la famiglia dal crollo del campanile "messo in sicurezza".
Lo sfogo dell'uomo con la maglia gialla, che ha estratto a mani nude dalle macerie la sorella e la moglie morte.
I giovani volontari che accarezzano e ringraziano i loro cani.
Lucia che guarda sollevata il nonno, uguale a quello di Heidi, già sopravvissuto al terremoto del '79.
Il racconto del rumore del terremoto, ora che qui è solo, insopportabile, silenzio.
La bellissima Norcia, esempio di ricostruzione antisismica riuscita, e il sorriso di Santa, due giorni senza sosta ad ascoltare e raccogliere richieste di aiuti e sopralluoghi.
E poi Teuta, al suo primo terremoto e quell'abbraccio improvviso e commosso che viene da lontano, quando semplicemente le diciamo che dopo 17 anni nel nostro paese può dirsi italiana e non più soltanto albanese.
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