Ci sono Natali anonimi, calibrati sulla quantità di cibo ingurgitato e su regali più o meno interessanti. Natali che scorrono senza lasciarti nulla, vuoti rituali familiari di cui, personalmente, troppo spesso dimentico il significato.
Ieri l'ho ritrovato, inaspettatamente, in un anonimo capannone fresco di costruzione. Un deposito di camion riadattato a festa: rami di luci e fiori finti sui pilastri, altoparlanti assordanti usciti forse da qualche discoteca, sedie di plastica e mille persone, per lo più sconosciute, seduta l'una accanto all'altra.
Erano dieci anni che non andavo a messa e se mi avessero detto che la funzione, tutta rigorosamente cantata, durava due ore, probabilmente non ci avrei mai messo piede. Ma questa era una messa speciale per tutte quelle persone.
Il mondo visto con gli occhi dei figli, dei più deboli, di chi ha pagato e forse pagherà tutta la vita per errori non suoi. Come quei planisferi rovesciati, con l'Australia al posto della Scandinavia, l'Africa in alto e la vecchia Europa in basso, ai piedi di tutto.
Il mio modo di vedere la religione e soprattutto la Chiesa non è certo cambiato, ma per la prima volta le parole pronunciate da un prete durante una messa mi sono sembrate reali, concrete, vicine. La sofferenza riempiva quel posto e scambiarsi il segno di pace per molti non è stato né semplice né immediato. "Le madri possono abbandonare i figli in mille modi. E i padri possono distruggerli in altrettanti". Vuoti troppo grandi da riempire.
Mentre ognugno reggeva una candela nel buio - come in uno scenografico ed emozionante finale di concerto - mi sono tornate in mente le bambine incontrate solo qualche mese fa in Libano, nell'orfanotrofio. E per un attimo mi è sembrato che la guerra, con il suo corrredo di ingustizie, ma anche con i suoi grandi squarci di umanità, fosse arrivata fino a qui.
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