Steve Mc Curry si definisce prima di tutto un “testimone”. Come se, attraverso il suo obiettivo, avesse deciso di dar voce a chi non ce l’ha e occhi a chi non può o non vuole vedere. Considerato tra i più grandi fotografi al mondo (collabora con le riviste più prestigiose e ha vinto due World press photo awards, il premio Nobel della fotografia) ha catturato volti, colori, paesaggi e identità di Paesi come Tibet, India e Birmania. Da sempre interessato più all’umanità delle persone che ai grandi eventi, al viaggio inteso come incontro e meraviglia, ha documentato numerose guerre. Ma per tutti resta soprattutto il “padre” della “ragazza afghana”: due occhi verdi sgranati, finiti su una celebre copertina del mensile National Geographic, che più di tante parole hanno saputo illustrare il dramma e la dignità dei profughi afghani. Recentemente è stato in Italia per presentare il suo ultimo libro (Sud Sud-Est, edizioni Phaidon) e la mostra che ne ricalca il titolo (Sud-Est): oltre 240 scatti, dedicati ai trent’anni più intensi della sua carriera, esposti fino al 31 gennaio al Palazzo della Ragione di Milano.
McCurry, la prima domanda è d’obbligo. Secondo lei, perché la ragazza afghana è diventata una delle fotografie più famose al mondo?
«Credo che in quel ritratto ci sia una combinazione molto forte tra la bellezza della bambina e il mistero che emana. Non voglio paragonarla alla Gioconda, ma anche in lei c’è una sorta di enigma: più la si guarda e meno si comprende quale sia l’emozione predominante. È chiaramente molto povera, eppure c’è una grande dignità e tensione nella sua presenza. Qualcosa che ti costringe a tornare indietro per guardarla ancora».
Dopo 17 anni è tornato in Afghanistan ed è riuscito a ritrovarla e fotografarla ancora. Come è stato l’incontro?
«Non l’avevamo davvero mai creduto possibile. È stato quasi un miracolo, che ci ha permesso di aiutare lei e i suoi figli: suo marito guadagna un dollaro al giorno facendo il fornaio e, come molti profughi è estremamente povero. Abbiamo inaugurato una scuola a Kabul in suo onore per 300 bambine. Inoltre, nella cultura pashtun è assolutamente proibito a un uomo incontrare una donna sposata e quindi poterlo fare, rivedere il suo viso e poterlo catturare ancora una volta, per me è stata una grande vittoria».
Di tutti i Paesi che ha visitato, quello dove è stato più spesso è l’Afghanistan. Qual è la sua “fotografia” della situazione attuale?
«Sono stato in Afghanistan l’ultima volta nell’aprile scorso. I talebani sono diventati più forti, tutto è più precario, la sicurezza è deteriorata. È un Paese al limite: odio essere così pessimista, ma non vedo un risultato positivo nella strategia militare americana. Credo non sia possibile sconfiggere i talebani militarmente. Sono troppi e troppo determinati. Aumentare i soldati non è la soluzione, ma solo il prolungamento dell’inevitabile risultato, che alla fine sarà quello di lasciare l’Afghanistan agli afghani».
Lei è stato in prima linea in Libano, Cambogia, Kuwait, ex Jugoslavia e Afghanistan: perché ha scelto di fotografare con questa insistenza la guerra?
«Credo che alcune persone ce l’abbiano nel Dna. È come se fossero cresciute per raccontare gli eventi tragici e oscuri di un conflitto. Vogliono essere dei testimoni, registrare quello che succede e soprattutto raccontare le storie di coloro che non hanno la capacità e la possibilità di farlo da sole. Lo facciamo perché abbiamo una forte motivazione, almeno questo è ciò che sento».
Lei ha detto: «Se aspetti abbastanza, le persone dimenticano la macchina fotografica e la loro anima comincia a librarsi verso di te». Ma in quale momento un fotografo deve fermarsi e rinunciare a scattare?
«Quando una persona fotografa, è come se tirasse il suo ultimo respiro. Quando si scatta, si scrive, si vive, si mangia e si respira, appunto, non ci si trattiene. Fotografare mi procura piacere, mi sostiene: è la cosa per cui vivo. Non ci sono domande che mi trattengono».
di Anna Maria Selini
Pubblicato su Famiglia Cristiana
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