lunedì 18 gennaio 2010

Steve Mc Curry. Sull'orlo del mondo

Steve Mc Curry si definisce prima di tutto un “testimone”. Come se, attraverso il suo obiettivo, avesse deciso di dar voce a chi non ce l’ha e occhi a chi non può o non vuole vedere. Considerato tra i più grandi fotografi al mondo (collabora con le riviste più prestigiose e ha vinto due World press photo awards, il premio Nobel della fotografia) ha catturato volti, colori, paesaggi e identità di Paesi come Tibet, India e Birmania. Da sempre interessato più all’umanità delle persone che ai grandi eventi, al viaggio inteso come incontro e meraviglia, ha documentato numerose guerre. Ma per tutti resta soprattutto il “padre” della “ragazza afghana”: due occhi verdi sgranati, finiti su una celebre copertina del mensile National Geographic, che più di tante parole hanno saputo illustrare il dramma e la dignità dei profughi afghani. Recentemente è stato in Italia per presentare il suo ultimo libro (Sud Sud-Est, edizioni Phaidon) e la mostra che ne ricalca il titolo (Sud-Est): oltre 240 scatti, dedicati ai trent’anni più intensi della sua carriera, esposti fino al 31 gennaio al Palazzo della Ragione di Milano.
McCurry, la prima domanda è d’obbligo. Secondo lei, perché la ragazza afghana è diventata una delle fotografie più famose al mondo?
«Credo che in quel ritratto ci sia una combinazione molto forte tra la bellezza della bambina e il mistero che emana. Non voglio paragonarla alla Gioconda, ma anche in lei c’è una sorta di enigma: più la si guarda e meno si comprende quale sia l’emozione predominante. È chiaramente molto povera, eppure c’è una grande dignità e tensione nella sua presenza. Qualcosa che ti costringe a tornare indietro per guardarla ancora».
Dopo 17 anni è tornato in Afghanistan ed è riuscito a ritrovarla e fotografarla ancora. Come è stato l’incontro?
«Non l’avevamo davvero mai creduto possibile. È stato quasi un miracolo, che ci ha permesso di aiutare lei e i suoi figli: suo marito guadagna un dollaro al giorno facendo il fornaio e, come molti profughi è estremamente povero. Abbiamo inaugurato una scuola a Kabul in suo onore per 300 bambine. Inoltre, nella cultura pashtun è assolutamente proibito a un uomo incontrare una donna sposata e quindi poterlo fare, rivedere il suo viso e poterlo catturare ancora una volta, per me è stata una grande vittoria».
Di tutti i Paesi che ha visitato, quello dove è stato più spesso è l’Afghanistan. Qual è la sua “fotografia” della situazione attuale?
«Sono stato in Afghanistan l’ultima volta nell’aprile scorso. I talebani sono diventati più forti, tutto è più precario, la sicurezza è deteriorata. È un Paese al limite: odio essere così pessimista, ma non vedo un risultato positivo nella strategia militare americana. Credo non sia possibile sconfiggere i talebani militarmente. Sono troppi e troppo determinati. Aumentare i soldati non è la soluzione, ma solo il prolungamento dell’inevitabile risultato, che alla fine sarà quello di lasciare l’Afghanistan agli afghani».
Lei è stato in prima linea in Libano, Cambogia, Kuwait, ex Jugoslavia e Afghanistan: perché ha scelto di fotografare con questa insistenza la guerra?
«Credo che alcune persone ce l’abbiano nel Dna. È come se fossero cresciute per raccontare gli eventi tragici e oscuri di un conflitto. Vogliono essere dei testimoni, registrare quello che succede e soprattutto raccontare le storie di coloro che non hanno la capacità e la possibilità di farlo da sole. Lo facciamo perché abbiamo una forte motivazione, almeno questo è ciò che sento».
Lei ha detto: «Se aspetti abbastanza, le persone dimenticano la macchina fotografica e la loro anima comincia a librarsi verso di te». Ma in quale momento un fotografo deve fermarsi e rinunciare a scattare?
«Quando una persona fotografa, è come se tirasse il suo ultimo respiro. Quando si scatta, si scrive, si vive, si mangia e si respira, appunto, non ci si trattiene. Fotografare mi procura piacere, mi sostiene: è la cosa per cui vivo. Non ci sono domande che mi trattengono».

di Anna Maria Selini

Pubblicato su Famiglia Cristiana

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