Lasciare Gaza dopo due settimane e tornare
a Gerusalemme è stato scioccante. In taxi, bloccata nel traffico assordante del venerdì pomeriggio pre shabbat (la festa ebraica del riposo che cade ogni sabato) mi è tornata in mente una scena di Lost in traslation. Persa in un mondo che parla un'altra lingua. Smarrita tra palazzi, colori, suoni, persone e movimenti troppo veloci, quasi inafferrabili, rispetto a quelli a cui mi ero abituata.
Come un'extraterrestre ho guardato la gran quantità di cibo in vendita per le strade e nelle vetrine: chili di pane fresco, mele non ammaccate, meloni profumati, chicchi d'uva ammiccanti (a Gaza la frutta si trova ma non così in abbondanza). Banalmente, tutto quello che uno può desiderare, voglie espresse e subito soddisfatte, alcool incluso naturalmente.
Poi ho notato l'assenza di certi rumori (in cambio ho ritrovato il caos tipico di ogni città): non più il ronzio costante dei generatori come sottofondo e soprattutto niente più clacson continui, mentre si cammina per strada. All'inizio pensavo fossero i soliti "maschi" poi ho realizzato che come in molti altri posti (vedi Cuba) si trattava del più diffuso mezzo di trasporto "pubblico": a Gaza chi ha la macchina la usa come taxi e per pochi shekel da un passaggio a chiunque, invitandolo col clacson.
Confesso di essermi riabituata in fretta alla normalità (e al consumismo): ho scoperto nuovamente le braccia, mi sono infilata nel mio bar preferito sorseggiando la mia bibita preferita (lemonana), dato un'occhiata ai regali da comprare alle amiche e sgranocchiato un fantastico cioccolato.
Ho accarezzato con lo sguardo la Porta di Damasco e i suoi venditori, il muro della Città vecchia (il mio ostello è esattamente adiacente), trascinandomi stanca tra i vicoli di Gerusalemme est, all'ora in cui i negozianti abbassano le serrande e soprattutto quando il caldo cede il passo alla brezza serale.
Gerusalemme mi conquista ogni volta, ma Gaza ti lascia un vuoto dentro. Mentre me ne andavo, lungo la costa, ho salutato ancora una volta le sue rovine. Com'è Gaza? mi chiedono tutti. Gaza è una ferita lunga 40 km, in alcuni punti, rarissimi, cicatrizzata, in altri grondante ancora sangue.
Il sole, la gente che riempie le spiagge e i negozi riaperti traggono in inganno. Le macerie sono ancora lì, le ruspe in azione in tutta la Striscia si contano sulle dita e i palazzi bombardati vengono demoliti praticamente a mani nude, anche perché ogni briciola di cemento va raccolta. Servirà per ricostruire, a Gaza riciclare è un imperativo, visto che a sei mesi dalla fine delle guerra, i materiali edili ancora non entrano.
E' la gente, però, quello che più colpisce: non so davvero in che modo e perché, ma è come se fossero loro a farti forza. E' un estremo spirito di sopravvivenza, una sorta di capacità collettiva di sdrammatizzare. Essere abbattuti e subito rialzarsi, come se niente fosse successo, come se tutto fosse normale. Morire d'inverno e sposarsi d'estate. Bombardamenti mattutini contro le barche dei pescatori e festanti rulli di tamburo al tramonto. Quasi avessero lo stesso ritmo e la stessa logica. Come se in fondo nessuno ne avvertisse più la differenza.
2 commenti:
anna, letto ora tutto questo ha un sapore diverso....davvero bello e intenso...brava..davvero!
a.
grazie cara, ma tu non sei certo da meno! ujn abbraccio
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