mercoledì 14 gennaio 2009

Il "mio" Libano

Il “mio” Libano è una bambina velata, fiera, con le braccia incrociate, in mezzo a un gruppo di militari stranieri. Sono le strade assolate a sud del fiume Litani (la zona sotto comando italiano), ragazzini che si emozionano al passaggio del convoglio che ci scorta, ma anche che ci insultano o fingono di tirarci le pietre. Il Libano meridionale è una donna che cammina senza alzare lo sguardo da terra, tra curve di campagne bruciate dal sole, dalla povertà e dalle troppe guerre. Manifesti pubblicitari giganti, con le facce dei leader politici di Amal o Hezbollah, le scritte sui muri ineggianti alla resistenza e le immagini che celebrano la distruzione dei mezzi “nemici”. Blindati sventrati, rovesciati, andati a fuoco. Anche i nostri.
La mia prima volta da “embedded”: tecnicamente una giornalista che si muove al seguito delle forze armate. Viaggiare con i militari significa vedere quello che loro scelgono di farti vedere, conoscere una porzione di realtà in un certo senso precostituita, ma anche aver accesso a un mondo altrimenti inavvicinabile e verso il quale molti di noi nutrono forti pregiudizi.
Stando con loro, giorno dopo giorno, si impara che non è qui che bisogna cercare i “colpevoli” o i “cattivi”.
La maggior
parte della truppa partecipa per motivi economici a quelle che vengono chiamate, spesso impropriamente (ma non è il caso del Libano), “missioni di pace”. Quasi tutti vengono dal Sud, a casa hanno una moglie che li aspetta, almeno un figlio e un mutuo da pagare. Certo, sono sempre pronti a sparare, seppure “per scopo difensivo”, ma tra di loro, c’è anche gente come gli sminatori. Moderni certosini che, per 1700 euro al mese e 7 ore al giorno, stanno in ginocchio sotto un sole cocente anche a metà ottobre, scandagliando centimetro per centimetro bananeti e campi di tabacco, potenziali trappole per gli agricoltori libanesi.
Qui, infatti, ci sono migliaia di cluster bombs, i famosi ordigni a grappolo inesplosi, regalo dei bombardamenti israeliani del 2006. Così come lungo la Blue line, il confine meridionale con Israele, presidiato da un nostro avamposto militare e segnato con 198 bidoni azzurri con la scritta UN (Nazioni Unite). Linea contesa e resa ancora più pericolosa dalla presenza di numerose mine.
A Tibnin, invece, ho visitato il mio primo orfanotrofio. All’inizio me ne sono stata alla larga, ho osservato le bambine (era un istituto femminile) entrare in fila indiana. Poi ci hanno chiesto di avvicinarci, familiarizzare. Con imbarazzo ho sfoderato le due parole di arabo che conosco e loro come api sul miele si sono avvicinate.
Hanno
contato per me in italiano, francese, inglese, da uno fino a dieci. Poi a mia volta ho contato in arabo (con risultati decisamente peggiori) e in una specie di lingua universale fatta di sorrisi, gesti ed emozioni, abbiamo continuato a comunicare. Ad un certo punto, una bambina di sette anni, dal nome incomprensibile, mi ha chiesto quando sarei tornata. Scontato forse, ma anche questa era la mia prima volta. Ho smesso di essere serena e avrei voluto andarmene, mentre lei mi seguiva ad ogni passo, tenendomi per mano. Siamo rimasti ancora un po’, ma prima che le salutassimo, forse per non farci “stare male”, le hanno fatte rimettere in fila e uscire. Loro hanno abbassato la testa e diligentemente se ne sono andate. Un copione che conoscevano.
In autobus molti di noi sono stati assaliti dall’angoscia. Alcuni dei nostri militari hanno preferito aspettarci fuori e - anche se forse tutto era stato preparato per i giornalisti “embedded” - in diversi altri hanno pianto.

Articolo pubblicato sul numero di gennaio de La SPInta, il mensile dello Spi Cgil di Bologna, che coordino. La redazione mentre ero assente ha deciso di lasciarmi uno spazio per un resoconto in prima persona. Li ringrazio per l'attenzione e "l'eccezione".