«Hanno sparato in fronte ad un operatore che stava riprendendo quello che succedeva sulla Mavi Marmara, abbattendolo». È il racconto, raccolto nel carcere israeliano, che più ha colpito Manolo Luppichini, il regista freelance che si trovava con altri cinque italiani a bordo della Freedom Flotilla, la spedizione diretta a Gaza, intercettata dalla marina israeliana, mentre si trovava in acque internazionali, con un blitz che ha provocato la morte di 9 persone. «Le telecamere sono le armi più potenti a volte. Lo sappiamo bene, visto che ci hanno sequestrato tutto. Stiamo portando avanti una denuncia collettiva per riavere il materiale girato e l'attrezzatura». «Ma sembra che qualcosa si sia salvato – gli fa eco il collega Manuel Zani – e se è così, presto verrà fatto circolare».
Zani e Luppichini sono arrivati venerdì sera a Bologna per partecipare a un incontro su «Media e conflitti» in programma da mesi, in cui sono stati proiettati un estratto della puntata «Guerre», realizzata da Luppichini per il programma Presa diretta (Rai3) di Riccardo Iacona e un'inchiesta di Maurizio Torrealta, giornalista di Rainews24. «Partendo dalle prove raccolte sul campo da Luppichini – ha detto Torrealta – è stato possibile risalire alle violazioni dei trattati internazionali che bandiscono l'uso di armi chimiche». Armi che sono state usate nella Striscia di Gaza, come documentato, tra gli altri, da Amnesty International e dal giudice Goldstone nell'inchiesta su «Piombo fuso» affidatagli dall'Onu.Luppichini era stato tra i primi operatori italiani a entrare a Gaza, dopo l'operazione militare israeliana che nel gennaio 2009 ha provocato la morte di 1400 palestinesi e 13 israeliani. Anche il viaggio sulla Freedom Flotilla sarebbe dovuto diventare materiale televisivo. «Dovevamo realizzare un documentario sul viaggio – racconta Zani –. Avevamo già preso contatti con diverse televisioni». «Si tratta della più grande spedizione mai realizzata per rompere l'assedio israeliano di Gaza – ha sottolineato Luppichini – un fatto oggettivamente storico».
Per questo i due italiani, che stanno già pensando di ripartire, contestano la rappresentazione che è stata data di loro. «Il nostro ruolo di documentaristi è stato strumentalizzato – denuncia Zani –. Proprio per evitare che la nostra narrazione venisse tacciata di partigianeria e mancanza di obiettività avevamo deciso fin dall'inizio di separarci anche fisicamente dagli attivisti. C'è stato un tentativo di attribuirci una collocazione ben precisa per togliere valore alle nostre testimonianze».
«Sono un mediattivista – ha aggiunto Luppichini – ma su quella nave ero in veste di giornalista. Sapevamo benissimo che non c'era spazio per zone grigie, per noi la cosa più importante era testimoniare e fare il nostro lavoro».
Luppichini è poi tornato a parlare del numero di vittime: diciannove, secondo la testimonianza da lui raccolta di un'infermiera australiana che si trovava a bordo della Mavi Marmara e non nove, di cui 8 di nazionalità turca e una turco americana, come risulta ufficialmente. «A fronte della presenza sulla nave di quaranta nazionalità diverse, mi pare poco credibile – ha commentato – che siano stati colpiti solo dei turchi».
Infine ha smentito la notizia che non avesse con sé il passaporto: «Non è vero. Mi è stato rubato – precisa – tanto che gli israeliani avevano la fotocopia, con i timbri del precedente viaggio fatto a Gaza. Per fortuna il nostro consolato, non appena saputo che ero stato nuovamente sequestrato perché mi rifiutavo di andare in Turchia e non direttamente in Italia come chiedevo, si è mosso rapidamente».
di Anna Maria Selini
pubblicato su L'Eco di Bergamo
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