Meglio affidarsi a punti di riferimento come grandi negozi, ristoranti o sedi delle organizzazioni internazionali, che con poca discrezione hanno occupato il centro della città.
Benvenuti a Prishtina (in albanese) o Pristine (in serbo), si legge avvicinandosi alla capitale del Kosovo, anche se qui di serbi se ne incontrano pochi.
A ribadire la (costituzionale) parità delle etnie che compongono il mosaico kosovaro (albanesi, serbi, rom, turchi, gorani e bosniaci) c’è anche la nuova bandiera. Troppo simile a quella dell’Unione europea e per questo poco amata, comincia a fare timidamente la sua comparsa accanto all’onnipresente aquila a due teste albanese.
Lungo la centralissima via Madre Teresa, le bancarelle di libri, intanto, resistono allo scorrere del tempo e della crisi aumentando l'offerta dei testi di seconda mano. "Gli internazionali - racconta un libraio che qualche mese fa ha dovuto chiudere il suo negozio - non sono interessati ai nostri libri e alla nostra cultura, mentre i kosovari devono pensare a mangiare".
Il fascino di Pristina è racchiuso nel piccolo cuore antico, attorno alla moschea vecchia, tra piccoli forni che vendono burek, il pane tradizionale, e negozi femminili alla moda saudita. Da queste parti può capitare di vedere una moschea sorgere sopra un supermarket, dove, inutile dirlo, è rigorosamente vietata la vendita di alcolici. E anche qui, tra i generatori elettrici, di cui sono dotati tutti gli esercizi commerciali, si moltiplicano gli Internet point.
Pristina ama l’America che l’ha liberata: su un palazzo campeggia la gigantografia di Bill Clinton, gli Hillary’s bar si incontrano ad ogni angolo e la sera i ragazzi riempiono i pub, mischiandosi ai cosiddetti “internazionali”, presenti ormai dal ’99. Grazie a loro, il costo degli affitti e della vita ha raggiunto i livelli di una capitale europea, senza che gli stipendi abbiano fatto lo stesso.
di Anna Maria Selini
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