Dopo l’ingresso della Nato, i profughi albanesi sono tornati, mentre i serbi hanno cominciato a fuggire. Nelle città se ne contano pochissimi e solo alcuni hanno fatto ritorno, trovando spesso la propria casa distrutta, per ritorsione, dagli albanesi. Grappoli di case depredate, abbattute e andate a fuoco, soprattutto nella zona occidentale del paese, vicino a Pec, sono il segno più evidente della guerra consumatasi nove anni fa. Da allora, i serbi più irriducibili vivono nelle enclaves, presidiate giorno e notte dai militari della missione internazionale Kfor.
I rapporti tra le due etnie, infatti, sono ancora molto tesi e per Belgrado questa regione continua a chiamarsi Kosovo e Methohija, la parte dove sorgono i più importanti luoghi di culto della religione e della cultura serbo-ortodossa.
Per trovare esempi “felici” di convivenza, occorre andare in quei villaggi dove le relazioni interne alla comunità già prima delle guerra erano buone e andavano al di là della differenza etnica: è qui che i rientri sono riusciti meglio e in parte sono ancora in corso.
Nel villaggio di Videja - Vidanje, per esempio, l’ong italiana Reggio Terzo Mondo, contribuisce alla riconciliazione attraverso diversi progetti come quello che ha dato vita all’associazione Indira.
Sferruzzando e chiacchierando, un gruppo di 75 donne albanesi, serbe e rom, grazie all’aiuto italiano tenta di emanciparsi e, cosa che non guasta, di integrare il reddito familiare attraverso una collezione di scialli, guanti e borsette fatte a mano, vendute poi nelle botteghe equo-solidali nostrane.
I coloratissimi gomitoli utilizzati sono di acrilico. La lana vera, in Kosovo, costerebbe troppo.
di Anna Maria Selini
Nessun commento:
Posta un commento