A quattro mesi dall’offensiva israeliana contro Gaza, in cui sono morte quasi 1.400 persone e sono andati distrutti un’infinità di edifici, è difficile parlare di ricostruzione. La guerra è finita ma, per la chiusura dei valichi e le restrizioni imposte da Israele, la gente continua a soffrire e in alcuni casi a morire, come denuncia tra gli altri la Mezzaluna rossa palestinese.
Superati i chilometri di case distrutte, le scuole e le moschee abbattute, le tendopoli dove la gente si rifugia di giorno ma non dorme la notte, perché preferisce ammassarsi nelle case dei parenti, si entra a Gaza City, la capitale. Qui i bombardamenti sono stati più mirati, hanno colpito soprattutto i palazzi del potere (ma anche la stazione dei pompieri e la scuola dell’Onu, dove la gente si era rifugiata): l’obiettivo erano i fondamentalisti di Hamas, considerato da Israele e buona parte della comunità internazionale solo un pericoloso gruppo terroristico. Secondo gli israeliani gli edifici colpiti ospitavano anche covi di cecchini.Su una delle strade più trafficate di Gaza City, incombe, minaccioso, quel che resta del Parlamento: un palazzo di numerosi piani che si regge su una sola gamba, un monumento alla guerra, come ce ne sono tanti qui (risalenti al conflitto con Israele del ’67, fino alla guerra civile del 2007 tra le milizie di Hamas e Fatah). Sono ferite da mostrare al mondo. «La situazione resta quanto mai delicata – ha dichiarato il presidente dell’Unicef italiana, Vincenzo Spadafora –. Basti pensare che il territorio di Gaza è stato oggetto di un blocco per 22 mesi. Solo a marzo sono entrati una media di 132 camion al giorno, rispetto ai 475 del maggio 2007». Chilometri di aiuti umanitari bloccati alla frontiera, lasciati a marcire sotto il sole, come hanno mostrato le immagini nascoste, mandate in onda anche dai nostri telegiornali, prodotte dall’ong genovese «Music for peace», riuscita a entrare a Gaza dopo 50 giorni di attesa con 40 tonnellate di aiuti.«A Gaza non entra il cemento, perché secondo Israele servirebbe per costruire i tunnel – spiega Vittorio Arrigoni, pacifista italiano rimasto nella Striscia durante l’offensiva, che ha raccontato in presa diretta sul suo blog, il più consultato in Italia nel mese di gennaio –. Non entra il ferro perché potrebbe servire a costruire i razzi Qassam, non entra il vetro, non si sa bene per quale motivo».
Non ci sono vetri, infatti, alle finestre dell’ospedale Al Quds di Gaza. Un’intera ala è distrutta, dopo che è stata bombardata anche con il fosforo. Qui ha sede la Mezzaluna rossa palestinese, l’equivalente della Croce rossa italiana, organizzazione indipendente che fa da ponte tra ospedali e donatori stranieri. «La situazione è disperata – dichiara Azmi Al Astal, direttore dell’unità di salute mentale –. Solo personalmente ho contato più di cento bambini malati di cancro. Erano abituati a curarsi in Israele o in Egitto, oggi che i valichi sono chiusi stanno facendo la chemioterapia qui, ma le cure non sono assolutamente sufficienti per i bisogni di tutti. C’è un enorme bisogno di scorte di medicinali – continua –. Gli aiuti che entrano hanno una scadenza molto breve, tale che non ne possiamo beneficiare davvero». I donatori internazionali, tra cui anche la Comunità Europea, non riconoscono il governo di Hamas e per questo i fondi e gli aiuti passano attraverso l’Autorità nazionale palestinese, in Cisgiordania, retta dal partito rivale di Hamas, Al Fatah. A rimetterci in questo cortocircuito politico sono ancora una volta i civili: «Se i donatori non vogliono parlare con Hamas, va bene – conclude il dottor Al Astal –, ma cosa ne sarà delle persone? Sono loro che hanno sofferto, sono loro le uniche vittime di questa guerra, oggi come ieri». (foto di Aldo Soligno).
Anna Maria Selini
pubblicato su L'Eco di Bergamo
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