venerdì 22 maggio 2009

Sderot e Gaza unite dall'incubo bombe

A Gaza come a Sderot - la città nel sud di Israele dove cadono la maggior parte dei razzi Qassam lanciati dalla Striscia - la gente ha una sola paura: che la guerra ricominci da un momento all'altro. I palestinesi e gli israeliani, separati da soli tre chilometri di distanza, sanno bene che l'obiettivo dell'ultima offensiva non è stato raggiunto: Hamas non è stato sradicato e a pagare il conto sono stati soprattutto i civili.
"Negli ultimi 8 anni sono 12 mila i missili lanciati dalla Striscia di Gaza verso il sud di Israele - dichiara David Bouskila, sindaco di Sderot - di questi, 8000 sono caduti sulla nostra città, 1000 all'anno, una quantità per cui è impossibile vivere normalmente".

La vita qui è scandita dallo "zebaidon", l'allarme lanciato dagli altoparlanti disseminati ovunque, come i rifugi. Quindici i secondi di tempo per raggiungerli: fermate degli autobus rinforzate, bunker nel giardino o dentro casa, giochi per bambini trasformati in ripari anti-missili.
"Su ventiduemila residenti, circa 5000 sono sotto terapia - spiega Adriana Katz, direttrice della clinica di igiene mentale di Sderot -. Gli ultimi otto anni hanno contribuito a ridurre in maniera massiccia tutte le forme di sviluppo, dall'economia alla vita sociale fino a quella familiare. Numerose famiglie sono andate distrutte e i bambini vivono in una condizione di regressione totale. L'anima non si fa fotografare come i feriti o le case distrutte, ma a volte è più difficile da riparare".
Per cinque mesi, durante la tregua del 2008 tra Israele e Hamas, i missili sono quasi spariti. "Per la prima volta mi sono sentita difesa dal mio governo - racconta Nomika Zion, membro del gruppo 'Other voice' - ma quando lo stesso governo ha attaccato Gaza non ho potuto tacere". Nomika è diventata famosa in Israele e nel mondo per esser stata una delle poche voci critiche, quando oltre il 90% degli israeliani era favorevole alla guerra. "Ho scritto che non ero disposta ad accettare che mi si dicesse che l'attacco era per la mia sicurezza, ma che piuttosto avrei pagato il prezzo dell'isolamento sociale. In realtà ho ricevuto numerosissime attestazioni di solidarietà, anche dall'estero, e ho capito di non essere sola". "Il nostro gruppo ha parlato, anche durante l'offensiva, con alcuni abitanti di Gaza - continua -. I miei connazionali non capiscono cosa significhi vivere nel più grande ghetto del mondo. Dobbiamo cercare a tutti i costi di arrivare a un negoziato, noi come loro siamo vittime dei nostri leader politici".
Aggirandosi per le strade di Sderot e parlando con la gente, ci si rende conto che qui, come a Gaza, le persone non si odiano. Gli anziani ricordano con piacere i tempi passati, in cui loro e i palestinesi lavoravamo e vivevano insieme, senza barriere o missili a dividerli, mentre i giovani, appena possono, scappano dalla città.
"Ora la situazione è piuttosto calma - conclude la dottoressa Katz - ma nessuno in fondo si sente tranquillo. Siamo tutti in attesa, a Sderot come a Gaza, della prossima volta".

di Anna Maria Selini

pubblicato su l'Eco di Bergamo

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