Sono passati sei secoli da quando il principe Lek Dukagjini codificò nel Kanun le norme tradizionali che regolavano la società albanese. Tramandato fino ad allora in forma orale, il Kanun fu trascritto all'inizio del Novecento e anche oggi, tra telefonini e manifesti pubblicitari, continua ad esercitare la sua influenza soprattutto nei villaggi del Kosovo rurale. Il sistema si basa sul clan, la famiglia allargata di tipo patriarcale, sulla difesa dell'onore dei membri dagli attacchi esterni e sul rispetto a ogni costo della parola data. Ci sono villaggi abitati quasi esclusivamente da vedove, e non soltanto a causa della guerra ma anche per l'obbligo di vendetta: chi vede uccidere un proprio familiare deve continuare la faida sui parenti maschi dell'assassino fino al terzo grado. La popolazione kosovara è fatta per oltre metà da giovani sotto i 25 anni e i cambiamenti avanzano in fretta, ma per alcuni strati sociali liberarsi dalla tradizione è più difficile. Nel villaggio di Vitina, vicino al confine con la Macedonia, la chiesa cattolica è riuscita a spezzare in parte una dolorosa catena di vessazioni il cui anello debole erano le donne. Il Kanun prevede infatti che una donna rimasta vedova venga allontanata dalla casa del marito, lasciando ai suoceri gli eventuali figli. “In questo modo, i bambini rimanevano orfani due volte”, spiega il parroco don Lush Gjergji, che con anni di tenace dialogo, offrendo alle vedove un sostegno economico, è riuscito a convincere molte famiglie ad abbandonare la crudele tradizione. Al posto del Kanun, oggi in Kosovo è in vigore un'avanzata costituzione, ma i tempi delle culture, si sa, sono più lunghi di quelli della politica. La centralità del clan è la cifra, ma anche un po' la forza, della società kosovara, in cui è normale che un fratello o una sorella emigrati si facciano carico di mantenere anche una decina di persone della famiglia d'origine. “Il Kanun è ancora presente in tutto – commenta la ricercatrice femminista Viollca Krasniqi: - nel modo in cui si fanno gli affari, nei discorsi dei politici, perfino nel modo di salutarsi”.
di Giulia Bondi
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