lunedì 21 dicembre 2009

Elicottero lost and found


Perdere la valigia è una sciagura in qualsiasi paese si atterri. Ma in Israele anche lo smarrimento di mutande e calzini può diventare una questione politica e di sicurezza nazionale, soprattutto se si è diretti in Cisgiordania o a Gaza, territori occupati dal 1967 e privi di un loro aeroporto.
"Se vuole per riportargliela possiamo chiedere in prestito un elicottero all'esercito", mi ha detto scherzando l'impiegato dell'ufficio bagagli smarriti all'areoporto di Tel Aviv. Gli avevo appena comunicato la mia destinazione: Jenin, nord della Cisgiordania. "Noi non entriamo lì, lo sa vero? - ha continuato, a dir poco stupito della mia meta -. Al massimo possiamo arrivare fino a un valico".
Inutile fargli notare che la colpa non era certo mia, che la compagnia aerea (austriaca) o comunque il servizio bagagli (israeliano) avevano il dovere di restituirmi la valigia ovunque mi trovassi, anche perché Tel Aviv è una delle due alternative aeree possibili (l'altra è Amman) per accedere in Cisgiordania. Inutile: qui tutto è o diventa "questione di sicurezza" e non può essere certo una valigia o una straniera sfortunata a fare la differenza.
Finalmente, dopo due giorni di attesa, la tanto agognata telefonata: il borsone è a Tel Aviv. Roba da tirare un sospiro di sollievo, per lo meno in altre parti del mondo, non esattamente qui.
Jenin è la provincia più settentrionale e povera della Cisgiordania ed è interamente circondata da una barriera di filo spinato (la versione light del muro di separazione), 4 checkpoint fissi, un numero indefinito di quelli volanti, 17 gates e numerose torrette di osservazione.
L'ingresso in questo caso più vicino è quello di Al Jalama. Riaperto da poco tempo, dicono, dopo la visita di Tony Blair, nuova icona nel pantheon internazionale palestinese.
Ma il corriere non ne vuole sapere, dice di non potersi avvicinare troppo (agli israeliani è vietato entrare nei territori occupati e molti sono terrorizzati dalla sola prossimità) e così ci diamo appuntamento in territorio israeliano ad una fantomatica stazione di servizio.
Peccato che nell'al di là ci fossero solo stazioni di servizio. E che comunque prima di arrivarci, abbiamo dovuto attraversare il valico: tempo necessario tre quarti d'ora.
Sembrava di stare in fila al casello autostradale, in pieno esodo d'agosto, solo che al posto dei casellanti scocciati c'erano gli addetti ai controlli (altrettanto scocciati) con giubbotto antiproiettile e mitra ben in vista. Civili e non soldati, ultima frontiera del grande business della sicurezza, stupiti dalla presenza di quattro italiane in quel passaggio solitamente attraversato da palestinesi che si recano a lavorare in Israele.
Superato il controllo passaporti, il metal detector, l'ispezione della macchina, ci siamo finalmente avventurate oltre confine, alla ricerca della valigia ma soprattutto del corriere. Per un'ora abbiamo vagato per rotatorie, strade provinciali, campi rigogliosi e verdi, così diversi dalle terre brulle e poco ordinate che c'eravamo ormai lasciate alla spalle. Un'ora ad andare e dieci minuti per tornare, sfrecciando come matte per la paura di tornare indietro e trovare il valico chiuso.
Cosa che puntualmente si è verificata, anche se a dire il vero, la chiusura ufficiale era prevista per le 17 e noi alle 16.45 eravamo ai cancelli.
Fatto sta che abbiamo dovuto lasciare la macchina n Israele e rientrare a piedi in Cisgiordania, un'altra volta in fila con i palestinesi, anche loro stupiti della presenza di quelle quattro occidentali e una valigia.
Nuovo girotondo, tra tornelli giganti, controllo passaporti, metal detector e varia umanità. A un certo punto arriva un uomo con una bicicletta da bambino tra le mani. La stringe come un trofeo, ma non passa dai tornelli. Gira e rigira, niente da fare. Finchè impietositi i soldati aprono la porta laterale e lui fiero e sorridente entra, passa, ci saluta.
C'è anche chi tra le mani con meno orgoglio e più fatica stringe un lavandino. Di ceramica, nuovo di zecca. Anche lui si ferma, teme il peggio, ce la fa, passa e sorride.
E chi invece le mani le stringe a pugno, battendole forte contro le inferriate, quando all'improvviso e a intermittenza i tornelli vengono bloccati. Preghiere mute di frustrazione e rabbia. Occhi stanchi che chiedono solo di passare, tornare a casa e riposare, al termine di una giornata al servizio degli stessi israeliani che ora non li fanno rientrare.
Umiliazioni e controsensi. Polli in batteria e modellini telecomandati tra le grinfie di un bimbo perverso che ha già deciso strada e tempi.
Noi rimaniamo in disparte. Ci dicono di aspettare, forse per controllare, forse per spaventarci. Anche noi temiamo il peggio, ce la facciamo, passiamo e sorridiamo.
Uscite dal labirinto di neon e ritornate nelle stradi senza luci, ci sentiamo sollevate, quasi divertite. Ma quella che per noi è stata un'avventura per altri, ogni giorno, è vita.

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