Tre lettere e una rivoluzione. Le trovi ovunque, scritte sui muri, nei tweet o nei rap: SBZ. Ovvero Sidi Bouzid, la città tunisina epicentro della rivolta che ha sconvolto la Tunisia, portando, il 14 gennaio scorso, alla caduta di Ben Ali, il dittatore che dal 1987 teneva in pugno il paese.
Ma la data da segnare nei libri di storia, sottolineano da queste parti, con la paura di chi troppo spesso è stato dimenticato, è un'altra: il 17 dicembre del 2010, quando Mohammed Bouazizi, un ambulante di 26 anni, si è dato fuoco ed è morto, dopo che una poliziotta gli aveva sequestrato la bilancia e lui aveva inutilmente chiesto di essere ricevuto dal governatore locale.
Sidi Bouzid e la Tunisia non è stata più la stessa: da qui, estendendosi a macchia d'olio fino a toccare in poche settimane la capitale, la gente è scesa in strada chiedendo dapprima libertà, dignità, lavoro. E poi la fine del regime.
Prima i giovani e i disoccupati, poi i sindacati, gli studenti, gli avvocati, gli insegnanti e la gente comune. La rabbia covata per troppo tempo si è sfogata attraverso ogni canale: dalle piazze reali a quelle virtuali, ingigantendosi ed echeggiando nei blog, via facebook e twitter.
La primavera, come amano chiamarla i media (ma attenzione a definirla 'rivoluzione dei gelsomini', visto che così Ben Ali soprannominò la sua presa di potere, ndr) è sbocciata, contagiando poi l'intero mondo arabo.
Eppure camminando per le vie di Sidi Bouzid e parlando con la gente sembra che nulla sia cambiato. Quello che colpisce, oltre ai 'graffiti rivoluzionari' spalmati sui muri di un bianco accecante, è il senso d'attesa. Un'intera città che attende e spera. In un lavoro, un cambiamento, forse in un miracolo. Perchè qui, nella Tunisia profonda, lontana dalle spiagge e dalle casette bianche con le finestre azzurre da cartolina, il lavoro manca e se anche i campi (l'agricoltura è la principale attività) sono carichi di frutti, gli chomeurs, i disoccupati, sono quasi il 40% (34% secondo i dati ufficiali).
E allora tutti in fila. Ogni giorno, centinaia di persone, giovani, donne, anziani: li trovi in coda fuori dagli uffici di collocamento, seduti sui muretti del governatorato, lungo i marciapiedi o all'ombra di un giardino. Perchè essere
disoccupati spesso è l'unico lavoro.
"Qui non c'è niente - racconta Sabeur, il nostro fixer -. Niente lavoro, niente dignità, niente speranza. Anche se
provassi a vendere i miei genitori, non avrei di
che campare. Sono vecchi e malconci”. Sabeur ha 26 anni e parla perfettamente quattro lingue. L'italiano, come molti, l'ha imparato guardando la tv nostrana. Lavora a giornata come autista, per guadagnare l'equivalente di una decina di euro e quando gli va meglio aiuta i giornalisti nel fissare appuntamenti e interviste. Ma adesso Sidi Bouzid se la sono dimenticati tutti e l'unico albergo in città sembra una cattedrale kitch in un deserto che non è nemmeno un deserto. Sabeur chiede solo di lavorare e come lui tutti i giovani che trascorrono le serate, a centinaia, spalmati nei tavolini dei bar, magari con un diploma o una laurea in tasca, giocando a carte o fumando un eterno narghilè.
Vista da qui Tunisi, il Nord, può avere un solo significato: un porto da cui salpare. Imbarcarsi, andarsene, rischiare. In Italia perchè no.
"Meglio la Francia - mi dice un anziano incrociato per strada, inveendo contro di me quando sente che sono italiana -. Avete fatto un casino per 5000 rifugiati tunisini e noi, in piena rivoluzione abbiamo accolto centinaia di migliaia di profughi in fuga dalla Libia".
Già. Perchè anche questo è stata la primavera tunisina, una grande prova di solidarietà.
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