Con Veton, Ilire ha condiviso l'esperienza della guerra e il viaggio verso il campo profughi di Blace, in Macedonia. “Abbiamo persino dovuto pagare il biglietto per la pulizia etnica”, ricorda.
Beviamo caffè e acqua minerale slovena al bar nel giardino di Rtk, la televisione che Ilire stessa ha contribuito a fondare, in una via centrale di Pristina. Fuori dal cancello di metallo, dietro le vetrine dei negozi, sorridono manichini con chiassosi abiti da sposa in poliestere. Sui ciottoli della strada si affastellano bancarelle di frutta, verdura, t-shirt e bandierine. Ilire e Marco Guidi, il giornalista che ci accompagna nei primi giorni di viaggio, ricordano i giorni di giugno del '99 quando la Nato entrò nel paese. Nelle parole di Marco scorre l'adrenalina dell'inviato di guerra, nello sguardo determinato di Ilire e nelle sue parole chiare traspare appena l'emozione di ricordi dolorosi. “Il Kosovo – sostiene - è la vittoria dei giornalisti e della grande visibilità che hanno saputo dare alla nostra tragedia”. Per lei, il bisogno di raccontare è stato più forte del dolore. Anche dal campo profughi scriveva e pubblicava il suo diario di guerra. Gli amici giornalisti italiani organizzarono per lei e i familiari un trasferimento in Italia, ma dopo solo pochi giorni Ilire sentì il bisogno di tornare in Kosovo, a scrivere e mostrare le storie del suo popolo. “L'arrivo della Nato ci ha salvati – dice – e anche oggi la presenza dei contingenti Kfor è fondamentale per tentare di combattere il crimine”. Secondo Ilire però, gli internazionali oggi sono anche parte in causa in uno dei più gravi problemi del Kosovo, i traffici, soprattutto quello di donne da avviare alla prostituzione. “E quando si tratta di affari – spiega – i criminali albanesi e serbi vanno sempre d'amore e d'accordo, negli anni delle guerre come adesso”.
di Giulia Bondi
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