lunedì 30 marzo 2009

Là dove si curano i clandestini

Ci sono luoghi che costringono a fare i conti con i pregiudizi anche più inconfessabili. Angoli di mondo quotidianamente sotto i nostri occhi, che preferiamo non vedere. Passare oltre, lasciando che qualcuno approfitti dei nostri atavici e umanissimi timori, trasformandoli in ansie collettive, odi e biechi istinti.
A Bologna, in zona universitaria, spingendo un vecchio portone, si entra in uno di questi angoli: “Sokos, associazione per l’assistenza ad emarginati ed immigrati”, si legge sulla porta. E’ qui che si curano i clandestini. Decine di clandestini. File di irregolari “stranamente” ben vestiti, silenziosi e composti, che chiacchierano, sorridono, sbuffano, sfogliano riviste. Nessuna frotta di disperati, niente delinquenti dallo sguardo truce, nessun untore pronto a spandere epidemie. Un normale ambulatorio di città con qualche anziano, un bel po’ di bambini e tantissime donne.
“Oltre il 60% dei nostri pazienti sono lavoratrici – esordisce Natalia Ciccarella, direttore sanitario di Sokos - e quasi tutte sono colf o badanti in nero. Gli uomini, invece, hanno più difficoltà a trovare lavoro e per questo anche meno disponibilità per curarsi”.
Nel 2008, in 290 giorni di servizio, Sokos ha erogato 5663 prestazioni (tra visite di base e specialistiche), per una media settimanale di 37 ore d’ambulatorio. Oltre a due medici generici sempre presenti, secondo i turni, si trovano specialisti in allergologia, fisiatria, urologia, neurologia, psicologia, dermatologia, due ginecologi, un ecografo e un farmacista. Ogni prestazione effettuata è gratuita, mentre gli accertamenti al di fuori della struttura - che è convenzionata con l’Asl - prevedono il normale pagamento del ticket.
L’ambulatorio è nato nel 1993, dall’idea di un gruppo di medici con alle spalle esperienze in teatri di guerra o in campi profughi, che scelsero di dedicarsi agli emarginati e immigrati, inizialmente per strada: oggi l’associazione conta una cinquantina di iscritti tra personale medico e operatori e numerosi sono i giovani volontari.
“I problemi sanitari di queste persone dipendono da condizioni che sanitarie non sono - precisa Chiara Bodini, medico e ricercatrice -. Il loro essere o diventare irregolari, magari perchè perdono improvvisamente il lavoro, li espone automaticamente a condizioni di vita devastanti, come il sovraffollamento abitativo, la mancanza di spazi, la difficoltà di accesso ai servizi. Tutti fattori che provocano situazioni di forte stress emotivo e fisico, contro le quali il medico può fare poco, limitandosi a intervenire sull’ultima parte del problema, quando invece il problema è a monte”.
Non solo cure, insomma, ma diritti e battaglie, che Sokos conduce parallelamente, come il 17 marzo scorso, quando i volontari hanno dato vita ad un presidio in piazza Maggiore, aderendo alla mobilitazione nazionale contro l’emendamento al pacchetto sicurezza, voluto dalla Lega, che di fatto rende possibile la denuncia dei clandestini da parte dei medici. Una violazione dei principi internazionali e della Legge Turco - Napolitano in tema di diritti degli immigrati. Violazione duramente contestata dall’Ordine dei medici e anche dalla nostra Regione che, per rassicurare gli immigrati, ha affisso manifesti in nove lingue negli ospedali bolognesi.
“Finora non abbiamo registrato nessun calo significativo di presenze - precisa Ciccarella - ma questo è dovuto al fatto che i pazienti si fidano di noi, tanto che a volte, anche ottenuto il permesso di soggiorno, continuano a venire. Quel che è certo – continua - è che svolgiamo anche un’importante attività di prevenzione. Non appena intravediamo qualcosa che non va, avviamo subito degli accertamenti e la profilassi necessaria. Certamente se cominciassero a non fidarsi, il rischio di epidemie diventerebbe concreto, oltre a prodursi un sovraccarico per la spesa sanitaria nazionale. Una vera bomba da tutti i punti di vista”.
Ma quali sono le patologie di cui soffrono gli irregolari? “Soprattutto problemi osteoarticolari - spiega Ciccarella -. Dalle badanti ai manovali, si tratta di lavori estremamente usuranti e non dobbiamo dimenticare che spesso sono persone che nel proprio paese facevano tutt’altro e che non hanno la possibilità, inoltre, di potersi riposare o staccare, perché perderebbero il lavoro. La cosa più difficile, però, è quando ti senti dire ‘Ho male al cuore’: un disagio, una difficoltà di vivere, che spesso sfocia in depressione e che colpisce anche gli uomini, soprattutto quando non trovano lavoro”.
Sokol ha 38 anni, è albanese e vive qui da sette anni. “Ho un problemino di salute – sorride - mi hanno fatto tre volte il trapianto del midollo e per questo non trovo lavori regolari ma solo in nero. L’ultima volta che è uscito il decreto flussi (per la regolarizzazione degli immigrati, ndr) ero in ospedale e così non ce l’ho fatta. Ci spero ancora, non ho mai pensato di tornare a casa, qui mi sono trovato bene e ho tanti amici che non voglio lasciare”.
Anche Eugenia, 42 anni, con in braccio il piccolo Mihajil di 7, ha voglia di parlare. Sono arrivati dalla Moldavia tre anni fa, raggiungendo il marito che ha un regolare permesso di soggiorno. “Faccio le pulizie in alcune case. Sono tanto contenta, manca solo mio figlio maggiore e poi saremo tutti qua. E’ difficile, ma mai come prima”.
Madda (il nome è di fantasia), ha 30 anni, viene dalla Georgia ed è incinta. “Mi sono sposata due settimane fa e sto facendo il permesso di soggiorno. Lavoro come babysitter in una famiglia e spero che adesso mio marito possa raggiungermi”.
E’ difficile far combaciare
l’immagine di questi irregolari con quella dei delinquenti e dei clandestini “minaccia per il paese”. “Certo a volte capita che arrivino strani personaggi - ammette il direttore sanitario - ma esattamente nella stessa percentuale che si riscontra tra gli italiani. Per noi i clandestini sono semplicemente pazienti, con una gran dignità e con storie molto difficili alle spalle. Al loro posto, forse, noi non avremmo la stessa forza e se un tempo l’abbiamo avuta, oggi l’abbiamo dimenticata”.

di Anna Maria Selini

pubblicato su la SPInta di aprile

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