Durante «Piombo fuso» hanno perso la vita in sei, per raccontare la guerra che Israele non voleva venisse raccontata. Negli stessi giorni sono stati coinvolti, subendo intimidazioni anche fisiche, nei regolamenti di conti interni tra i partiti rivali Fatah e Hamas. E oggi, che la guerra è terminata (seppur la ricostruzione resti proibita), i giornalisti palestinesi denunciano meno libertà e maggiori controlli. Perché, che sia condotta da Israele, Hamas o Fatah, a Gaza la guerra all’informazione continua.
IL DOVERE DI RACCONTARE
«Stavano per colpire e bisognava posizionare subito tre telecamere sul tetto. Così le ho caricate in spalla, correndo su per le scale, quando ho visto davanti a me tre droni (aerei senza pilota, ndr). Ho aspettato a terra, finché sono stato sicuro che avessero capito che ero un giornalista. In quel momento volevo solo che le immagini uscissero da Gaza». Hamza El Attar, 26 anni, è uno degli operatori palestinesi dell’agenzia stampa Ramattan che ha raccontato «Piombo fuso».
L’ultima offensiva israeliana nella Striscia di Gaza – oltre a 1400 vittime palestinesi e 13 israeliane – passerà alla storia, infatti, anche per il divieto d’entrata imposto dal governo di Tel Aviv ai reporter stranieri e israeliani. Sono stati i colleghi palestinesi, per la maggior parte giovanissimi, ma con anni di esperienza come producer, giornalisti e operatori dei grandi network, a mostrare al mondo il conflitto. Per ventitré giorni sono rimasti nelle redazioni, senza tornare dalle loro famiglie, mentre i palazzi dei media venivano bombardati. In sei hanno perso la vita, riuscendo però a diffondere le immagini della guerra sulle tv di tutto il mondo, a partire da quelle israeliane.
«Mi ero sposato da poco – ricorda Tamer Al Misshal, reporter di Aljazeera – ma ho scelto di lavorare. Noi giornalisti dovevamo stare attenti a dare le notizie e a non diventare una notizia, visto che eravamo costantemente presi di mira».
A Gaza, tutti i cameramen e reporter riferiscono di essersi sentiti un bersaglio degli israeliani durante «Piombo fuso» e molti sono stati coinvolti in un attacco, mentre si trovavano al lavoro o nei pochi momenti trascorsi con la famiglia.
LA GUERRA PARALLELA
Mentre dall’altra parte del confine, in territorio israeliano, i corrispondenti stranieri osservavano con frustrazione i combattimenti, assiepati sulla cosiddetta «collina dei giornalisti», dentro Gaza i reporter palestinesi dovevano fronteggiare un’altra offensiva.
«È evidente che la guerra non dichiarata, ma in atto tra Hamas (che governa Gaza) e Fatah (che governa
la Cisgiordania) ha conseguenze molto pesanti anche per l’informazione – spiega Paolo Serventi Longhi, rappresentante italiano della Federazione internazionale della stampa –. A Gaza l’informazione e la comunicazione di opinioni vicine a Fatah è praticamente impedita, con repressioni anche personali e fisiche, ma questo accade, viceversa, anche in Cisgiordania».
I controlli e le intimidazioni non sono terminati con la guerra ed essere giornalisti oggi a Gaza è sempre più difficile. «Adesso sto pensando di lasciare, di trovare qualcosa di più sicuro del giornalismo – spiega Hazem Balousha che, tra gli altri, ha lavorato per il Guardian durante la guerra –. Non è facile, da un lato per gli israeliani dall’altro per gli stessi palestinesi. Cerchiamo solo di fare il nostro lavoro in maniera indipendente, ma è molto difficile in Palestina».
«Dopo che Hamas ha preso Gaza nel giugno del 2007 le cose sono diventate complicate – gli fa eco Asma Algoul –. Tutte le volte senti degli occhi indiscreti che leggono i tuoi articoli. Ho avuto un sacco di problemi da questo punto di vista, non solo da parte di Hamas, ma anche di Fatah: hanno mandato delle note critiche all’editore del mio giornale Alayyam per alcuni pezzi che non hanno gradito e alla fine ho lasciato, c’era troppa pressione da un parte e dall’altra».
I GIORNALISTI STRANIERI
Così come i cittadini, rinchiusi in quella che per molti è la più grande prigione al mondo, anche i giornalisti di Gaza danno spesso l’impressione di sentirsi abbandonati. «Gaza esiste solo se a Gaza si spara» ha scritto Gideon Levy un giornalista israeliano tra i più indipendenti e forse è davvero così.
«Dopo la guerra la vita delle persone è diventata molto più difficile, non entra un solo sacco di cemento per la ricostruzione e i confini sono sigillati – spiega Hamada Abuqammar, producer della Bbc –. I reporter stranieri hanno un grande ruolo, devono venire e raccontare la verità, noi siamo considerati di parte anche se abbiamo svolto il nostro lavoro con la maggiore correttezza possibile».
Certamente «Piombo fuso» per i reporter di Gaza è stata anche una questione nazionale, ma come ha detto Filippo Landi, corrispondente Rai da Gerusalemme: «la guerra è stata vinta da questi giornalisti, dal loro impegno, sacrificio, talvolta dai loro errori, però bisogna riconoscergli una grande onestà intellettuale che a molti ha dato fastidio».
«Noi scegliamo questo lavoro non per essere degli eroi, ma dei supervisori – conclude Hamza Elbuhaisi, giovane e coraggioso freelance –. Qui a Gaza è facile trovare una storia da raccontare, ma se volessi uscire al confine di Eretz mi arresterebbero. E, se volessi andare in alto mare con i nostri pescatori (Israele proibisce l’uscita oltre le tre miglia dalla costa, ndr), gli israeliani mi sparerebbero».
di Anna Maria Selini
pubblicato su l'Eco di Bergamo
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