In questi giorni mi è tornato in mente un episodio di qualche settimana fa...
Nel negozio di tappeti e vetri mediorentiali non ci eravamo finite per caso. "Vieni, vediamo se c'è ancora il ragazzo siriano" mi aveva detto la mia amica tra i vicoli di Trastevere. Nemmeno il tempo di dirle ok che già s'era fiondata tra ciondoli, lampadari e narghilè. Come se non fosse bastato lo spettacolo-pugno nello stomaco sulla Sarajevo assediata. Sindrome da esteri condivisa, domenica pomeriggio inclusa. Bisogno di infilare le dita nella storia, anche quando la storia è lontana o almeno così ti sembra.
"Tu sei siriano, vero?" aveva chiesto al ragazzo del negozio. "La Siria non esiste più, la Siria brucia e tra poco non resterà più nulla". Poche lapidarie parole e soprattutto quello sguardo ad accompagnarle.
Sì e no 25 anni, accento romanesco-mediorientale e occhi iniettati di rabbia-dolore-riprovazione. "Sono state uccise 130 mila persone, 300 mila sono sparite e il mondo non dice nulla. Nessuno fa nulla", ci aveva detto trafiggendoci con quello sguardo triste e diagonale, come a dire "è anche colpa vostra".
Si calcola che dall'inizio del conflitto siano 70 mila le vittime, ma Ibrahim su una cosa non esagera: il silenzio, il silenzio vergognoso che accompagna il massacro che da ormai due anni si sta consumando in Siria.
Testimoniare e fare il giornalista è ogni giorno più rischioso: dall'inizio del conflitto 127 reporter hanno perso la vita.
Nei giorni scorsi in Italia si è parlato molto di Siria, perchè quattro colleghi italiani sono stati protagonisti di un "fermo" prolungato, come è stato definito dalla Farnesina, per distinguerlo da un sequestro vero e proprio.
"Sono andato in Siria per parlare di questa sporca guerra, non sono contento che invece si parli di me. Non è quello che volevo", ha detto Amedeo Ricucci al suo ritorno in Italia, assaltato da telecamere e colleghi.
"Per un giornalista come me, che lavora in tv,
tornare a casa senza il 'girato' (vale a dire senza le immagini di
quello che si è visto, filmato e vissuto) non può che essere
un’umiliazione grande. Una perdita enorme - ha scritto nel suo blog Ricucci -. E’ come se quella storia
e quella esperienza non esistessero, visto che non possono essere
raccontate con il linguaggio che mi è congeniale, che è quello delle
immagini".
Sono felicissima che Amedeo - che oltre ad essere un collega è un amico - sia tornato a casa sano e salvo, insieme a Susan Dabbous, Elio Colavolpe e Andrea Vignali. Ma non posso che condividere quel senso di angoscia e frustrazione che ora prova.
Il dovere di un giornalista è raccontare, esserci, mostrare. Fornire gli strumenti per conoscere, capire e soprattutto agire. E' una grande responsabilità. Direttamente proporzionale allo sguardo di Ibrahim.
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